Eccellenze dell'artigianato
a cura di C. Caneva e L. Casprini Gentile

La sezione della mostra Le eccellenze dell’artigianato propone una scelta di terracotte d’uso e di arredo, alcune originali, altre riprodotte su forme antiche, che testimoniano non solo la maestria dei fornaciai nel creare da un materiale fragile manufatti resistenti all’usura, ma soprattutto la sensibilità delle varie epoche e alcune delle linee produttive di maggior successo.

Arredi da giardino

GEA_Vaso8000
Nonostante l’intrinseca fragilità del materiale e l’uso intenso cui da sempre sono stati sottoposti, i vasi, le conche e gli ornamenti in terracotta, tuttora conservati nei parchi e nei giardini storici, danno un’idea della straordinaria perizia dei fornaciai imprunetini che da sempre si sono dedicati alla fabbricazione di questi manufatti.

Resistentissimi all’usura e all’azione del gelo grazie alle caratteristiche del galestro con il quale sono stati foggiati, i vasi riflettono, nelle loro forme e soprattutto nelle decorazioni applicate, il gusto delle varie epoche.

Quando nel Quattrocento il giardino assunse una configurazione architettonica che lo connotò quale ideale prolungamento dell’edificio cui era annesso, contenitori e decorazioni in terracotta fecero il loro ingresso accanto alle collezioni di reperti archeologici, chiamati tutti ad animare uno spazio prettamente “umanistico”. Queste antiche terrecotte, tuttavia, non paiono essere sopravvissute; si conoscono, invece, numerose testimonianze della produzione fittile cinquecentesca e soprattutto seicentesca, quando anche la trattatistica specifica, dedicata ai giardini e al giardinaggio, volle suggerire le forme più idonee ad accogliere le colture allora di moda.

Col passare del tempo le forme dei vasi per le piante tesero a una graduale semplificazione, mentre quelli destinati all’ornamento degli edifici mantennero fogge fantasiose, arricchite da applicazioni plastiche di protomi, mascheroni, rosette, baccellature e altri elementi fito o zoomorfi. In particolare, nel XVII secolo, con la diffusione della coltivazione degli agrumi si sviluppò la tipologia della conca tuttora in uso, destinata ad accogliere limoni e melaranci. Contemporaneamente, per la coltivazione delle piante da fiori entrarono in uso le cassette di forma quadrangolare, con orlo estroflesso e ben rilevato, ornate da festoni, che furono ripetute senza variazioni significative lungo tutto il corso del Settecento e dell’Ottocento.

Anche la statuaria in terracotta si dimostrò un campo molto fertile per il mutevole gusto eclettico tardo ottocentesco. Il repertorio dei fornaciai d’Impruneta si arricchì di nuove figurazioni, alcune anche vagamente esotiche e bizzarre come le sfingi o i draghi, che si affiancarono ai più tradizionali animali, come cani da guardia e aquile, già diffusi tra Seicento e Settecento, e alle riproduzioni delle più note sculture classiche e rinascimentali.

Oggetti d'uso

1.4.1_26436
Contrariamente ai vasi e agli arredi da giardino, che hanno mantenuto nel tempo caratteristiche sostanzialmente invariate, mutando solo la loro decorazione legata al gusto corrente, i manufatti d’uso domestico – ed in particolare i contenitori da derrate come i grandi orci da olio – hanno subìto una precisa evoluzione nella loro forma, atta a rispondere a precise esigenze funzionali.

Tra i più antichi esemplari giunti fino a noi, sono da annoverare, per esempio, alcuni “coppi a beccaccia”, impiegati per lo stoccaggio di granaglie, olio e altre derrate, il cui profilo caratteristico, inconfondibile per il versatoio a forma di becco d’uccello ed il manico a nastro piatto, è rimasto immutato dal Trecento fino al Cinquecento inoltrato.

Con il passare del tempo e a seguito della necessità di disporre di contenitori di maggiori dimensioni, gli orci divennero più panciuti, assumendo proporzioni in taluni casi davvero monumentali. I corpi, dapprima lisci, furono scanditi da cerchiature a fasce, con una funzione sia decorativa sia strutturale, mentre il versatoio fu eliminato a favore di un orlo estroflesso e di un’apertura a ugello, posta nella parte inferiore dell’orcio, entro la quale poter inserire una cannella per la fuoriuscita del liquido.

Nel corso del Settecento, invece, gli orci mantennero la tipica forma ovoidale, mentre il collo, dapprima schiacciato, subì un progressivo allungamento nella foggia di un cilindro impostato direttamente sulla spalla del contenitore. Spesso ornati con ghirlande, protomi e mascheroni in rilievo, furono talvolta invetriati alfine di rendere la porosa terracotta impermeabile ai liquidi.

Durante tutto l’Ottocento, gli orci mantennero un aspetto pressoché invariato, ma già intorno alla metà del secolo iniziarono a perdere la loro funzione primaria di contenitori da derrate, divenendo, pian piano, maestosi elementi decorativi da inserire nei cortili cittadini o nei vasti giardini suburbani, entro i quali coltivare variopinte piante fiorite.

La terracotta del Novecento

ref6710
La produzione primo-novecentesca dell’Impruneta testimonia un momento di straordinaria vivacità per quanto riguarda la manifattura della terracotta, che fu favorita sia dalle necessità del momento, quando il laterizio fu impiegato ampiamente nell’edilizia, anche in sostituzione del ferro destinato esclusivamente all’industria militare, sia dalla politica dell’autarchia produttiva ed economica propugnata dal fascismo.

Questo rinnovato interesse per un materiale tanto resistente e al contempo molto duttile, la cui diffusione risaliva all’epoca etrusca e romana e la cui tecnologia era rimasta sostanzialmente immutata fin da tali remotissime epoche, stimolò un rapido aggiornamento delle fogge dei vasi, soprattutto di quelli ornamentali destinati all’arredo dei giardini e dei parchi che, non più ornati da festoni e ghirlande robbiane, spogliati delle protomi ferine, di borchie, rosette e altri rilievi, modificarono le loro forme adeguandosi al rigore geometrico propugnato dall’architettura razionalista.

I profili semplificati dei vasi, tutti modulati sui solidi geometrici oppure sulle forme tradizionali in qualche modo “purificate”, furono animati solo da sottili giochi di superficie, che creavano effetti di martellato, come nei metalli, o d’intonaco grezzo, con la terracotta resa scabra dalle umide dita del vasaio che, invece di carezzarla come di consueto, l’avevano freneticamente percorsa, picchiettandola delicatamente fino a incresparla.

Altri vasi, invece, paiono come stretti da rigature paratattiche oppure da risentite fasce in rilievo, altri ancora recuperano le forme etrusche e romane dei manufatti d’uso comune, testimoniando un gusto per l’arcaico e per l’antica tradizione italica, che già nella scultura aveva diffuso ricordi archeologici e classicheggianti.

La fortuna del Rinascimento

n_poggi6769
Soprattutto a seguito degli stimoli impressi dalle occasionali collaborazioni con architetti e designers, le fornaci di Impruneta si sono, in anni recenti, impegnate in un rinnovamento della produzione. La gamma dei vasi da giardino e da interno si è, per lo più, arricchita di forme attuali, improntate al gusto contemporaneo per arredi minimali dai profili netti e rigorosamente geometrici. Ancora una volta, i vasi sono stati spogliati di tutte le loro decorazioni e privati degli orli, ne sono state mutate le proporzioni consuete, creando composizioni modulari, ammorbidite solo dal caldo colore della terracotta.

Accanto a questi manufatti di tendenza più innovativa è tuttora diffusissima la pratica della riproduzione di vasi e soprattutto di rilievi e sculture classiche, del Quattrocento o del Cinquecento fiorentino. Tale pratica si è svolta senza soluzione di continuità fin dal XIX secolo, quando il gusto per la copia, improntato ad una esasperata sensibilità romantica, si era manifestato in forme eclettiche, in Toscana per lo più mitigate da una spiccata preferenza per l’età d’oro del Rinascimento e soprattutto da un vero e proprio «culto per immagini di rasserenata bellezza».

E così, se è ancora possibile, occhieggiando nei giardini dei villini tardo-ottocenteschi di Impruneta, incontrare qua e là fontane in cui l’acqua zampilla dalla bocca del delfino trattenuto tra le braccia del celebre putto di Andrea del Verrocchio, nelle esposizioni delle fabbriche di terrecotte queste presenze sono ancor più numerose e varie: dall’Afrodite di Milo resa in miniatura insieme alla Nike di Samotracia e all’Apollo del Belvedere, al Discobolo di Mirone, alla pudica Venere dei Medici, attraverso le copie da Donatello, Desiderio da Settignano, Luca e Andrea della Robbia, e poi Francesco Laurana, Michelangelo, Benvenuto Cellini, il Giambologna, fino ad arrivare alle riproduzioni da Antonio Canova, eseguite talvolta con una tale naïveté nel modellato da farne ormai immagini completamente diverse rispetto agli originali, quasi si fosse tentato, attraverso l’umile ferialità della terracotta, di addomesticare e riscaldare la fredda alterigia del marmo.